In campo per l’Italian food
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Quando a metà degli anni 80 la Spagna entrò nell'Unione europea, le preoccupazioni maggiori tra gli operatori del settore ortofrutticolo riguardavano le sorti degli agrumi. Il rischio - si ripeteva soprattutto in Sicilia - era che le " bionde " di Valencia potessero soppiantare le " rosse " di Catania sul ricco mercato tedesco. Tanto era il timore che, nel negoziato di adesione dei nuovi partner, la delegazione italiana pretese da Bruxelles un congruo assegno di alcune centinaia di milioni per ristrutturare aranceti e limoneti e prepararsi alla difficile sfida commerciale. Quei soldi furono spesi con decenni di ritardi e con programmi poco mirati.
Nel frattempo gli spagnoli- più organizzati e commercialmente aggressivi -, erano diventati i padroni del mercato tedesco, sfruttando anche le triangolazioni commerciali con i Paesi del Nord Africa, dove si rifornivano sistematicamente per integrare la loro gamma di offerta e allungare la stagione produttiva: due jolly per garantirsi le ricche forniture della grande distribuzione tedesca, ma anche francese e inglese. Persa la sfida sui mercati europei, l'Italia decise allora - con una perfetta manovra filoprotezionistica - di correre ai ripari per evitare di aggiungere al danno anche la beffa: perdere la partita anche in casa.
Per decenni le frontiere italiane furono chiuse all'import di agrumi per evitare il rischio di contagio dal " mal secco " , un virus che avrebbe messo a serio rischio gli aranceti made in Italy. Un blocco rimosso dall'Unione europea solo una decina d'anni fa in due step: prima solo per gli agrumi europei, cioè spagnoli; poi, via libera anche ai Paesi terzi, dal Marocco fino al Sudafrica. Risultato finale: Madrid esporta ora 3,5 milioni di tonnellate, l'Italia non più di 170mila tonnellate. Non solo il primato europeo è ormai finito nella bacheca dei ricordi, ma anche la stessa " bilancia agrumicola " ha dovuto registrare il sorpasso dell'import sull'export. Quello degli agrumi è un caso estremo, ma comunque emblematico, delle contraddizioni e di certe debolezze strutturali di cui soffre il made in Italy agroalimentare.
Per fortuna esistono molti altri settori che hanno saputo farsi valere sui mercati esteri, camminare in modo più spedito e anche rialzarsi da pericolosi incidenti di percorso. Prodotto simbolo di questa rivincita è il vino, che in meno di un lustro è passato da 2,5 a oltre tre miliardi di euro. Con due menzioni d'onore: primo nella graduatoria dell'export, primo nel mercato americano, dov'è riuscito a superare la concorrenza francese.
Tra i settori export oriented spiccano molti altri prodotti della tradizione gastronomica e industriale italiana: le conserve di pomodoro, il cui fatturato estero copre il 56% del totale, l'olio d'oliva, con poco meno del 40%, e la pasta, con il 37 per cento. Caffè, dolci, formaggi Dop e prosciutti guidano invece la crescita degli ultimi anni. Il settore è riuscito a superare abbastanza bene anche la difficile prova del cambio eurodollaro. Gli Stati Uniti, infatti, sono diventati lo scorso anno il secondo cliente del made in Italy alimentare con 1,89 miliardi di euro, superando di un'incollatura la Francia ( 1,84 miliardi). Saldamente in testa ( nonostante le difficoltà degli ultimi tempi) la Germania, con oltre 2,8 miliardi.
Nel 2004 la bilancia alimentare ha registrato un saldo attivo di 1,9 miliardi: una netta accelerazione nel primo semestre di quest'anno, anche se il merito è da attribuire al sensibile calo dell'import. Nonostante queste buone performance, la media dell'export sul fatturato complessivo non va oltre il 14,6% e le prospettive di crescita si fermano al 15%, contro una media europea del 18% e il 22% della Francia. Insomma, l'immagine all'estero dell'italian food è molto elevata, ma non sempre viene capitalizzata adeguatamente.
Il tanto promesso coordinamento per rendere più incisiva la promozione resta nel libro delle buone intenzioni, così la tutela dei marchi Dop e delle denominazioni tipiche del made in Italy. Lasciando campo libero ai falsari il cui business, tra contraffazioni e imitazioni, ha ormai superato con 55 miliardi la metà del fatturato dell'intera industria italiana.